È un male italiano: o forse è proprio una di quelle
debolezze umane, di quei limiti contro i quali lottare quotidianamente. È la
perpetrata volontà di fare il male, anche e spesso, passando dal bene.
Il riferimento specifico è alla questione degli impianti a
biogas (e le biomasse), che si sta dipanando davanti i nostri occhi con una
certa insistenza. Perché il biogas è un bene, se applicato nei contesti
corretti, ma diventa un male, pessimo esempio di infima speculazione, in altri situazioni.
Non serve in questo spazio, spiegare troppo tecnicamente –
scientificamente – cosa è il biogas, per quello c’è ampia letteratura dedicata,
altrettanto ampiamente accessibile. Mi basta definire, per i meno volonterosi, che
si tratta di impianti di produzione di energia, derivante dalla combustione di
una miscela di gas (il biogas, appunto), prodotta dalla fermentazione batterica
in anaerobiosi (assenza di ossigeno) dei residui organici provenienti da
rifiuti, vegetali in decomposizione, carcasse in putrescenza, liquami
zootecnici o fanghi di depurazione, e poi e soprattutto scarti
dell'agro-industria.
Valorizzazione energetica: così si definiscono certi impianti. E già dal nome, si capisce dove è il bene. Un materiale (biomassa) precedentemente utilizzata o prodotto per altri scopi o in altri cicli produttivi, e per quelli sfruttato e reso inutile, viene recuperato durante il naturale processo di decomposizione, per creare nuova energia. La valorizzazione, appunto, è questa. Gran bene, come è ovvio, senza ulteriori commenti. Anche perché in tali situazioni si può innescare un ciclo chiuso, che porta vicino a zero il bilancio produzione/consumo di certi composti inquinanti. Per esempio l’anidride carbonica: la quantità di CO2 emessa dalla combustione del metano prodotto negli impianti a biogas (per creare energia) è la stessa fissata dalle piante (che rappresentano la materia di produzione) nel loro ciclo biologico. Fin qui quindi il bene: se un’azienda produce nell'ambito della propria regolare attività imprenditoriale molta quantità di biomassa, l’uso di una tecnica per recuperare quella materia inutilizzabile e valorizzarla sotto forma di energia è giusto. Tanto più se poi sarà la ditta stessa a riutilizzare quell'energia che produce per mandare avanti la propria impresa. Si creerebbe così, un sistema dove si limita di gran lunga l’inquinamento e si rema a favore della sostenibilità nello sfruttamento delle risorse.
Ma è umano - nel senso di debolezza umana - che ci sia dietro l’inghippo. O peggio ancora, la
speculazione, la perversione economica, la volontà di approfittarsi. Il male,
per dire. Che diventa ancora peggiore, quando si nasconde tra le quinte, come una
maschera, una comparsata, del bene.
E perché, in realtà, molti impianti sono stati costruiti con
fini assolutamente distanti da quella valorizzazione del rifiuto, che nella
chiusura del giro torna a creare energia. Il motivo è molto semplice: costruire
impianti a biogas è economicamente conveniente. Ripaga l’investimento in breve
tempo: per il resto è tutto guadagno. Il mezzo per arrivare al conquibus è una tariffa incentivante
fornita dallo Stato (guadagno sicuro, dunque), le cui maglie forse sono troppo larghe, ma che fu creata per premiare (giustamente ed effettivamente) e
stimolare, decisioni di orientamento ecologico – e si badi bene, in assoluto il
biogas può esserlo.
Ma siccome non solo pecunia
non olet, ma anzi ed evidentemente, il profumo dev'essere intensissimo e
ammaliante, la furbizia umana ha permesso di giocare tra quelle maglie della
tariffa e creare un sistema di monetizzazione primario (rispetto al secondario legato al riutilizzo). Perché non sono infrequenti, gli impianti a biogas
riforniti da colture dedicate. Che significa cioè, utilizzare delle
coltivazioni intensive, per il solo fine di creare biomassa per gli impianti. Praticamente
produrre rifiuti (biomasse di carattere agro-alimentare, quasi sempre) con il solo
fine di produrre rifiuti. Per poi poter riqualificare quei rifiuti e
termo-valorizzarli, per così dire. Salvo poi obiettare, che di quei rifiuti non
ce n’era il bisogno, ma è il Dio Denaro, che guida il tutto.
E allora ecco apparire davanti ai nostri occhio,
appezzamenti di terreno (con dimensione minima 300ha) esclusivamente dedicati
alla produzione di biogas: il che vuol dire, che il mais che viene coltivato in
quei campi, non diventerà mai pop corn,
ma una volta raccolto verrà portato direttamente alla decomposizione nei
biodigestori degli impianti.
Assurdità antisociale. Produrre più, per spreco volontario,
senza necessità umana. Intere quantità di messi mandate al macero,
semplicemente perché è così che si guadagna soldi. Tutto l'opposto della sovranità alimentare, concetto profondo quanto estremamente importante in questi periodi. Ma qui si anche apre un'altra serie di problematiche correlate, che rendono la questione ancora più spinosa. Perché con la scusa che quel mais (o quant'altro) non è destinato al consumo,
né umano né animale, si punta alla resa: più prodotto c’è, più biomassa si
crea, più energia si produce, più soldi entrano in tasca. E per arrivare
all'obiettivo, si fa ampio uso di fertilizzanti e pesticidi: prodotti che
andranno a fissarsi sul suolo o ancora peggio, penetreranno in profondità
inquinando le falde acquifere. E dunque, il fine ecologico non solo viene
confutato dall'uso, ma addirittura è alterato negativamente, producendo un
ulteriore inquinamento.
Le problematiche non finiscono qui, perché a questo si
aggiunge la snaturalizzazione del territorio. Sia per l’intensità colturale e
per le densità, sia per le colture in sé, spesso dis-integrate dai contesti agricoli
circostanti. D'altronde, se l’obiettivo è produrre, non si può pensare se la
produzione è idonea o meno: si deve andare e macinare, mais e soldi allo stesso
ritmo. Campagne alterate da macchie colturali disomogenee con il resto del
coltivato. Poco importa, anche perché poi, quelle compagne saranno ancora più
alterate, dall'impianto in sé. Ecomostri piazzato in mezzo al verde – di solito
è così – senza che il prezzo di tale scelta urbanistica possa corrispondere ad
un reale beneficio. Perché vero che si chiuderebbe un occhio davanti alla
necessità prioritaria della comunità – per dire: serve smaltire i rifiuti, e
per farlo serve un certo tipo di struttura, impattante sì ma necessaria per il
bene di tutti. Invece no: in questo caso, il bene sta solo nel portafoglio
dell’investitore. Impianti, che per di più, hanno durata limitata e che devono
essere necessariamente ammodernati, rappresentando un spesa, che molto
probabilmente – anche a fronte di un ritocco al ribasso delle tariffe di
guadagno che sta già avvenendo – potrebbe non essere sostenibile, o meglio
potrebbe non rientrare più nell'interesse di chi ha investito. Perché la
speculazione è così che va: senza guardare indietro. La domanda, allora,
diventerebbe: come rivalorizzare il valorizzatore? Cosa farne di quegli enormi edifici
di cemento armato in mezzo alla campagna, una volta dismessi. Perché quando finiranno i soldi – quelli profumati, quelli facili, quelli del guadagno ampio – gli interessi si sposteranno altrove,
senza portarsi dietro certe pesanti strutture. Resterà invece, un territorio
deturpato da colture non funzionali alle richieste della popolazione, da reti
infrastrutturali non fruite e sovrabbondanti.
E poi ci sono altri aspetti di carattere socio-economico: la
perdita di appetibilità turistica dei luoghi, per esempio. Perché molti dei territori
deputati, in Umbria come altrove, sono continui a strutture ricettive come
agriturismi e country house, che
basano sul genius loci, sul
linguaggio emozionale del paesaggio, il loro appeal. Ragionamento analogo vale
anche per il patrimonio immobiliare: le problematiche che possono portare alla
svalutazione sono svariate, come è ovvio, non ultima quella delle emissioni
odorose non proprio rosee.
Dunque, per concludere questo rapido excursus sulla questione degli impianti a biogas, come sempre
succede, è il male che batte il bene. La furbizia speculativa, l’egoismo
dilagante, il prevaricare e calpestare gli interessi collettivi, lo sfruttare
gli spazi normativi e gli spiriti che li hanno contraddistinti con stratagemmi
infimi, l’uso malsano della tecnica e della tecnologia, l’interesse davanti al
bene comune. La storia recente degli impianti a biogas, non è troppo dissimile
ad un racconto sulle debolezze e sui limiti umani. Non possiamo per questo
esonerarci dalle responsabilità del volere il bene generalizzando, ma dobbiamo
combattere perché questo bene venga strettamente tutelato dall’apparato di
leggi che ci regola.
Ma prima, forse, occorre cambiare l’uomo, l’etica e la
morale, il suo modo di vivere la società e di porsi nei confronti della
collettività, nel suo essere davanti al bene e al male. E questo, ahimè, non è possibile con nessuna
norma.
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