Guardate queste foto: c'è già tutto quello che serve per capirci. Il seguito di questo post, potrebbe essere semplicemente cronaca, racconto, al limite pettegolezzo.
Perché il resto, parla di quel che è successo. L'immagini parlano di quel che è.
E quel che è dice, dice che ancora, nel 2013, quel famoso carro, è più facilmente tirato da un certo tipo di peluria che da un paio di buoi. E quel famoso rispetto e quella parità ancora parecchio lontano: se non nei fatti - noi ci possiamo vantare di avere una Presidente della Camera - nelle teste, e non solo italiane. E vale la pena di dirlo.
oppure
Si chiama Emelie
Eriksson, 24 anni svedese, blogger dal 2010. Il blog non è di sicuro
uno di quelli mainstream: niente di paragonabile agli infuoca popoli
come Beppe Grillo o agli opinion leader tipo Andrew Sparrow e
nemmeno ad una Yoani Sànchez dei fiordi.
Eriksson scrive un
blog personale, che si chiama En bloming tekopp, dove mette
insieme i suoi gioielli, scarpe, pensieri, fiori del balcone. Eppure,
dal 14 maggio qualcosa è cambiato. Perché è da un suo post che si
è mossa, corposa, la protesta contro la linea fashion basic,
socially suitable (a certe cose ci tengono), statunitense
American Apparel. Protesta che, da quei cento mila contatti iniziali
al post della Eriksson, s'è diffusa rapidamente in tutto il mondo.
Fino in Italia, paese dove la linea d'abbigliamento americana non ha
ampia diffusione (i punti vendita sono incentrati nelle principali
città, Milano, Roma, Firenze) e miete meno "fashion victims"
di altre catene.
L'accusa è di
quelle pruriginose: le pubblicità maschili e femminili hanno,
diciamo così, un'ispirazione abbastanza differente. Se da un lato si
vedono ragazzi, giovani, belli, casual e understatement,
impegnati in quotidiani, quanto sobri e misurati, atteggiamenti
naturali, sul lato di Venere le cose cambiano. E piegano verso lo
sfondo della cabina del camionista: ragazze seminude, con
atteggiamenti da strip club, provocantemente sexy.
E se la protesta è
nata nel paese delle libertà e dei diritti, dove la socialdemocrazia
si è fusa col welfare state come i sedili per entrambi i
sessi nelle stesse saune (rigorosamente frequentate nudi madre),
allora il valore assume un significato più forte. Perché la
dimensione ancipite delle immagine è innegabile e apre lo scenario
alla differenza di trattamento tra i sessi. Maschilismo e sessismo da
spogliatoio: ma si può andare anche oltre nell'interpretazione.
Sembra quasi che le donne siano l'oggetto dell'istinto, distrazione,
di un uomo misurato osservatore, in altro affaccendato.
Le associazioni per
la tutela dei consumatori si sono mosse in massa, chiedendo alle
autorità svedesi di intervenire: autorità di controllo, che nulla
hanno potuto, dato che il sito della ditta statunitense è registrato
in un dominio non svedese. Diversamente da quello che era successo
poco tempo fa, nel Regno Unito, dove invece si era riuscito a
bloccare gli advertisings.
Il tema, è sempre
quello, ripetitivamente tirato in ballo davanti ad eccessi e troppo
spesso taciuto nell'ordinario. Non sarà facile cambiare la rotta,
forse nemmeno i nostri figli ci riusciranno, magari i nostri nipoti.
Se non saranno inquinati da quell'attenzione istintiva che porta gli
uomini a soffermarsi prima sul fondoschiena della modella e poi,
chissà, sulla camicetta che indossa e sul se donerebbe anche alla
propria moglie.
Si parla di cultura,
intesa come uso e costume: dunque circostanze acquisite nei tempi,
difficili da scardinare. Ma è bello che partano dalla rete, dal
bottom up, certe osservazioni: che da lì si muova l'analisi
della società. Da un blog, semplice, privato e personale:
circostanza anche questa importante, e che in Italia dovrebbe far
riflettere alla luce dell'ampia, pigra e ripetitiva discussione che
si sta incentrando ancora una volta su internet e sulla sua
dimensione.
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