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domenica 20 novembre 2016

Post-Verità, con esempi

(Uscito su Formiche il 20/11/16)

L’Oxford Dictionary ha dichiarato “Parola dell’anno” per il 2016 “post-truth”, post-verità, ossia la circostanza in cui i fatti oggettivi contano meno dei fattori emotivi nel formare le opinioni (nemmeno i Big Data riescono a raccontare oggettivamente un mondo sempre più soggettivo, scrive Tech Crunch). E dunque, è stato frantumata “la fede nel nesso verità-realtà”, ha scritto Gianni Riotta sulla Stampa (“dapprima con un salutare moto critico, poi sprofondando nel nichilismo”).

La narrativa batte i fatti, e questo è. Si diffondono con rapidità ricostruzioni sghembe, false, inventate o create ad arte per qualche secondo fine: la colpa è della Rete? In questi giorni finiscono sul banco degli imputati i social network come Facebook, che secondo BuzzFeed nel corso del tempo è cambiato affidando sempre maggiore importanza all’identità dell’utente, lasciando sempre maggiore spazio alle sue opinioni e ai suoi commenti, circostanza che ha mostrato però “una realtà sempre più parziale”. Ma la Rete che altro è se non l’insieme di tutti noi, singoli nodi? E dunque, la rete o il bar, siamo noi ad essere propensi a credere a quello che siti, o persone, a noi care ci raccontano piuttosto che ai fatti oggettivi? Pare di sì: per andare sul tema elezioni americane, quando è stato il momento in cui  quello che sta scritto sul New York Times è diventato meno rilevante di quello che riporta Breibart News (il sito di ultra destra e cospirazionista prodotto da Steve Bannon, nuova guida strategica della Casa Bianca trumpiana)?

La campagna elettorale americana è stata continuamente caratterizzata dalle bugie, quelle dette dai runner, quelle raccontate da sempre più improbabili – ma sempre più seguite – fonti di informazioni, spesso studiate apposta per infiammare i supporter. È innegabile l’inclinazione repubblicana, in America, verso certe tematiche: “Barack Obama non è nato negli Stati Uniti e non può fare il presidente”, è il paradigma massimo di questo genere di narrazioni. Per esempio, anche Donald Trump, presidente eletto (e forse vincitore anche perché ha capito più di tutti gli altri che c’è un grosso della popolazione che non si schifa di vedere certi limiti superati), ha acceduto al tema. SecondoReal Clear Politics, sito che si occupa di raggruppare dati reali – fatti, per quel che conta – sulla politica americana, soltanto il 4 per cento delle affermazioni di Trump in campagna elettorale corrispondevano a verità, contro un 19 per cento di “prevalenti falsità”, il 34 di bugie e il 17 di cose che potremmo definire “falsissime” (“pants on fire” le chiamavano). Durante la campagna elettorale, s’era per esempio diffusa la narrazione che il leader dei Nirvana, Kurt Cobain, avesse previsto l’elezione di Trump: era una storia completamente inventata diffusa tramite meme immediati, immagini e qualche parola con un font immediato. S’è creata una macchina produttrice continua, anti-Hillary e pro Trump per costruire messaggi di questo genere (finanziati anche da personalità della Silicon Valley, per esempio Palmer Luckey di Oculus, che ha dovuto scusarsi perché erano uscite notizie – vere – a proposito di un suo finanziamento a Nimble America, una società pro-Trump che si è occupata, tra le altre cose, di creare questi meme offensivi contro Clinton). Messaggi creati con un fine: la propaganda. Non importa se quasi tutte le false notizie sono state via via smentite dai fact-cheking (a volte nemmeno troppo necessari, talmente erano grandi le panzane). Le persone continuavano a crederci comunque, oppure continuano ad esserne inclini e dunque poco importa se questa è stata smentita, crederanno alla prossima.

Il 20 gennaio inizierà alla Casa Bianca l’era Trump. Tra le proteste: Hillary Clinton ha vinto il voto popolare, chiuderà (“chiuderà” perché si stima che la più grande democrazia del mondo prima del 5 dicembre, ossia quasi un mese dopo il voto, non riuscirà a finire il conteggio completo deelle schede), chiuderà, dunque, con quasi due milioni di voti in più. Proprio le proteste sono un buon paradigma per spiegare l’era del post-truth: un caso. “Popolo sdegnato, cittadini in ansia per le sorti del Paese, movimento spontaneo di gente perbene? Qualcuno così ci sarà pure, per carità. Ma la realtà è quella che è rapidamente saltata fuori: file e file di pullman noleggiati per spostare i manifestanti da un posto all’altro, paga oraria tra 15 e 20 dollari l’ora per gridare ‘Not my president’ contro Trump, panini e bibite gratis” scrive così in un pezzo uscito la scorsa settimana su Linkiesta Fulvio Scaglione, ex vicedirettore di Famiglia Cristiana. Scaglione, paragonando le proteste di piazza negli Stati Uniti (ormai più o meno finite) a ciò che è successo in Siria, Georgia e Ucraina, accede proprio a uno dei temi di post-verità del momento: il fatto (fatto?) che dietro a tutti questi moti ci sia una macchinazione ideata da George Soros, potente e famosissimo finanziere americano. La linea è stata seguita dal blog di Beppe Grillo, che riprende con un certa costanza certe ricostruzioni alterate della realtà (spesso messe in circolazione da war room informative che trovano base in stati come la Russia, o l’Iran, o la Cina). Del debunking pezzo per pezzo del perché la notizia di Soros che finanzia i manifestanti anti-Trump è falsa se n’è occupato sulla rivista Left Martino Mazzonis, e si rimanda al suo articolo per approfondire: “Il caso di Soros e la diffusione di queste notizie bufala in Italia è un caso tipico”. Certo, Soros è, in una narrazione simmetrica e molto simile a quella relativa alle proteste americane, colui che finanzia il voto del “Sì” al referendum costituzionale: “È popolo contro banche” titola un pezzo de Lantidiplomatico, sito alla Breitbart vicino ai grillini, che riprendendo un’intervista del finanziere al CorSera – in cui si dichiarava a favore delle riforme – scrive che Soros “è ispiratore della riforma” stessa.

Nel giorno stesso in cui usciva l’articolo di Scaglione su Soros, l’EU StratCom Disinformation Reviewscriveva nella sua newsletter che questa narrazione che lega il finanziere alle proteste contro Trump è spinta da siti pro-Cremlino, che in molti casi sono costruiti ad hoc per diffondere disinformazione. Uno studio dell’Atlantic Council raccolto nel paper dell’Euroasian Center dal titolo “The Kremlin’s Trojan Horses” racconta di come anche le democrazie dell’Europa occidentale non siano immuni alle tattiche di influenza russe, che cercano di trasformare i media liberali e indipendenti, la pluralità di opinioni, e l’apertura alla libera circolazione del pensiero (virtù occidentale) come vulnerabilità da sfruttare per diffondere disinformazione (pro-Cremlino). È l’era della post-truth, è l’era della guerra informativa, aveva spiegato a Formiche.net l’analista Alessandro Pandolfi.

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